Un sogno di Europa e multiculturalismo. E di giornalismo autentico e indipendente
(di Maria Elena Molteni)
Non è consuetudine che un giornalista citi l’intervento di un altro giornalista. Il giornalista, per sua natura e dovere, non è portatore di un’opinione, come un politico, un analista, un pensatore o espressione di un interesse. E’ un cronista del tempo, una figura che racconta, descrive e documenta la realtà senza lasciare che le sue personali convinzioni influenzino il racconto. Ma ci sono parole che si fanno testimonianza e offrono spunti per arricchire il nostro pensiero collettivo. Ed è proprio per questo motivo che oggi ho scelto di citare un intervento di Corrado Formigli in occasione della manifestazione per l’Europa a Roma, lo scorso 15 marzo. Il pensiero che ho avuto, ascoltandolo, è che quel medesimo spirito di ricerca e di scoperta che, a vario titolo, è stato quello della generazione che ci accomuna, vorrei che fosse il medesimo dei nostri figli, che oggi vivono una condizione completamente diversa. Il viaggio senza certezza della meta, la scoperta di quello che non si conosce, il rischio, la voglia di essere testimoni del proprio tempo.
Il suo intervento si trasforma in una visione, una testimonianza di un’Europa che sogna di essere unita, di una società che abbraccia la diversità culturale, di un mondo in cui il multiculturalismo non è un concetto astratto. È un sogno di scoperta, di convivenza, di possibilità infinite che si spalancano davanti a noi. Possibilità che i giovani non devono scordare di avere. Nonostante ogni subdolo pensiero suprematista si stia facendo strada, senza che i nostri ragazzi se ne rendano più di tanto conto.
Leggetelo qui o ascoltatelo
“Mi chiamo Corrado Formigli, ho 56 anni e sono orgogliosamente, appassionatamente giornalista. È la prima volta nella mia vita che salgo su un palco di una manifestazione.
Pensate, mi hanno detto: “Ma che ci vai a fare lì? Ci sono le bandiere della Giorgia, le bandiere dell’Ucraina, le bandiere dell’Europa e le bandiere della pace.”
E io rispondo così: “Ma avete scambiato una manifestazione per una caserma? Pensate che tutti, dentro una piazza, debbano pensarla nella stessa identica maniera?”
Io credo che queste bandiere, tutte insieme, siano attraversate e unite da un pensiero comune, da un rifiuto comune: il rifiuto di questa idea di democrazia che avanza oggi e che è una democrazia che pensa di compiersi soltanto nel momento del voto. Il giorno dopo il voto, sulla base del consenso popolare, inizia ad attaccare i corpi intermedi: l’informazione indipendente, la magistratura, i corpi di controllo dello Stato.
In Europa è nata una democrazia che si basa sulla separazione dei poteri, e tutte le persone che sono qui, a prescindere da come la pensino sul riarmo, sono anche unite da un’altra idea: tutti sognano gli Stati Uniti d’Europa, tutti sognano che ci sia un sistema di difesa che sia però comune.
Michele Serra, che è anche un amico oltre che un grandissimo giornalista, ha parlato di una piazza sentimentale, una piazza dominata dall’empatia, una piazza prepolitica.
Allora, permettetemi di fare un racconto breve e sentimentale di che cosa è stata per me l’Europa e di che cosa vorrei che fosse per i miei figli. Ne ho quattro.
Torniamo a quando avevo vent’anni. Sono partito una mattina di settembre del 1991 a bordo della mia Polo blu, carica di valigie, un intero prosciutto e chili e chili di parmigiano, lasciando Firenze tra le lacrime della mia fidanzata di allora, che si chiamava Tatiana. Destinazione: Londra, borsa Erasmus.
Per noi, allora, l’Erasmus era un sogno, l’inizio di un’avventura. Il mio piano, in realtà, era molto semplice: con la scusa di studiare, volevo propormi come corrispondente per qualche giornale italiano che ne fosse sprovvisto. Scetticismo generale, ovviamente, a partire dalla mia famiglia e dai miei genitori.
Ma per me Londra, che allora era nell’Unione Europea (e speriamo che ci torni presto), era sinonimo di avventura totale, di scoperta, un luogo esotico e misterioso. Io mi sentivo come Emilio Salgari.
Per me l’Inghilterra fu un colpo di fulmine. Lì ho scoperto la cucina indiana, che allora per noi fiorentini era una roba esoterica: il curry, il masala dosa, i biryani, e poi le bettole pakistane, i forni kosher con i bagel caldi, le moschee affollate del venerdì mattina a Whitechapel. Insomma, a Londra ho scoperto il multiculturalismo, una parola che oggi fa orrore ai suprematisti bianchi, che da Washington all’Ungheria sognano nazioni di un solo colore, una sola cultura dominante, un unico Dio da pregare.
Viaggiavo tra Firenze e Londra in preda all’euforia, scavalcando dogane e check-in alla velocità del suono, e quella rotta era la strada dei miei sogni.
Alla fine riuscii a scrivere per Il Manifesto e a ingannare mio padre sulle mie reali intenzioni: lui sperava che diventassi avvocato. Poi tornai in Italia per un contratto a Roma, nella redazione de Il Manifesto”, allora diretto da Luigi Pintor.
È così che scoprii Roma, ma quella Londra lì non me la scorderò mai. Mi ha dato la svolta, mi ha insegnato a conoscere la diversità, mi ha fatto innamorare del melting pot e mi ha scolpito in testa la vecchia ricetta del più scafato ed efficace intervistatore della BBC, che si chiamava – anzi, si chiama ancora, perché ha 75 anni ed è vivo e vegeto – Jeremy Paxman.
Paxman aveva una regola d’oro per le interviste: “Quando intervisti un politico, fatti prima dentro di te questa domanda: ‘Ma perché questo bugiardo patentato vuole mentire proprio a me?'”
Ecco, giusto per non dimenticarselo.
L’Europa che sogno, oltre a profumare un po’ di curry e ad accogliere chi arriva da lontano ed è diverso da noi, deve tenere alta la bandiera del giornalismo come professione indipendente.
Regolamentare i trust, combattere la propaganda anziché subirne l’assalto da dentro e da fuori dei suoi confini. Insomma, molto più Jeremy Paxman, molto meno Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e, soprattutto, molto, molto meno Elon Musk”.